Cooperazione civile, spirito ambientalista e viaggi per il mondo all’insegna delle
relazioni umane e della
biodiversità. Oggi intervistiamo Marzio Giovanni Marzorati, che ci parlerà del suo modo di
vivere la sostenibilità a partire da strumenti concreti e dall’
affrontare disastri ambientali come quelli del fiume Seveso in Lombardia, regione sede del grande
Parco Nord Milano, partner istituzionale di GECO EXPO, di cui è presidente.
Quali sono gli strumenti pratici per garantire lo sviluppo sostenibile ai nostri territori, alle nostre città?
Dobbiamo ponderare l’utilizzo delle risorse alle effettive capacità di rigenerazione,
troppo spesso andiamo oltre le capacità del territorio di sopportare il nostro sviluppo, intacchiamo in modo irreversibile le condizioni ambientali e anche sociali. Prendiamo ad esempio il suolo, ne abbiamo fatto un consumo esagerato generando infrastrutture pubbliche, case e capannoni vuoti, non siamo stati capaci di rigenerare gli edifici esistenti e le migliaia di spazi vuoti che sono presenti nella nostra regione. Le acque soffrono intensamente la nostra azione, peggiora la loro qualità e non vengono adeguatamente salvaguardati i nostri fiumi e torrenti.
La sostenibilità dipende dalla capacità di mantenere attivi i processi economici e sociali in stretta relazione con l’ambiente. La prima conversione ecologica dipende dalla considerazione che
l’economia non può prescindere dall’ecologia e quindi dalla necessità di inserire le risorse ambientali nei costi economici. Faccio riferimento ai diversi servizi
ecosistemici che sono generati dalle componenti naturali del territorio, dai boschi, dal suolo, dalle acque, dalla biodiversità. Questi servizi sono capaci di soddisfare le necessità umane e garantiscono la vita di tutte le specie viventi. Creare sviluppo sostenibile significa migliorare le proprie condizioni di vita mantenendo attive le condizioni ambientali. La sostenibilità non può prescindere dalla partecipazione delle comunità locali e delle persone, significa mettere in atto un processo di coinvolgimento che si colleghi direttamente ai bisogni e al cambiamento degli stili di vita. Credo che l’attuale situazione richieda azioni sovracomunali, dobbiamo pianificare e agire su territori più vasti in modo garantire risultati qualificati e utili, in questa direzione la Città Metropolitana è certamente una opportunità e un utile strumento tecnico e istituzione.
Naturalmente il
Parco Nord Milano ha un'ambizione che consideriamo significativa per il consolidamento dei processi di sostenibilità: la creazione di un grande Parco Metropolitano e Agricolo Milanese che abbracci tutte le aree verdi di Città Metropolitana, garantendo la salvaguardia di
un grande polmone verde che può assicurare per il futuro l’adattamento ai cambiamenti climatici, il miglioramento della qualità dell’aria, il controllo e la qualità delle acque, il benessere psicologico delle persone, l’agricoltura di qualità.
Le sue radici nell'ambientalismo affondano nel grave incidente chimico di Seveso, che cosa le ha insegnato quell'esperienza e cosa è cambiato da allora?
Quando è successo l’incidente a Seveso avevo 17 anni ed era il 1976. L’evento fece molto scalpore perché
per la prima volta il territorio si opponeva all’inquinamento generato dai luoghi produttivi. L’accettazione dell’inquinamento per il lavoro era terminata. Le persone volevano migliorare le proprie condizioni di vita ma non erano più disposte a farlo a discapito della propria salute e di quella dell’ambiente. Prima di tutto l’incidente chimico provocato dall’ICMESA mi ha insegnato quanto sia
determinante per l’ambientalismo l’approccio scientifico: questa modalità mi ha accompagnato in tutta la mia esperienza sia professionale che associativa. Inoltre ho appreso quanto sia importante il processo di partecipazione con le comunità locali per far comprendere i limiti dello sviluppo che non considera la salute e la cura dell’ambiente. Sicuramente da allora è cambiato tutto ma in particolare è cambiato il quadro istituzionale e tecnico. Oggi abbiamo la presenza di ARPA (Agenzia regionale per la protezione ambientale) che è un ente della pubblica amministrazione operante in tutte le Regioni. ARPA e ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) costituiscono il Sistema nazione per la protezione dell’ambiente. In Europa oggi abbiamo dati, rilevamenti e controlli che permettono di monitorare le pressioni ambientali e quindi la qualità del nostro vivere.
Pensate che solo in Lombardia ARPA impiega circa 1000 persone, soprattutto tecnici specializzati che svolgono annualmente migliaia di controlli alle attività produttive, campionamenti ambientali, monitoraggi, previsioni e campionamenti. Ecco, tutto questo nel 1976 non c’era e soprattutto non c’era la direttiva europea “Seveso” che si occupa di prevenzione dei grandi rischi industriali a partire dal 1982. Forse oggi, e con la crisi sanitaria determinata da Covid-19, siamo ancora più consapevoli che la nostra salute dipende strettamente dalla salute della natura e dal nostro stretto rapporto con essa.
Come si è evoluto il suo rapporto con il territorio di Milano e il suo indotto?
La città di Milano è certamente una città che è stata capace in questi anni di fare una scommessa ambientale, sia per quanto riguarda la mobilità, la gestione delle aree verdi e la pianificazione urbanistica.
Milano attrae e ha una incredibile spinta in avanti, riesce a far immaginare il futuro. Certo io non sono molto obiettivo perché amo Milano da sempre, da quando ci studiavo ad ora che ci lavoro e dove trattengo gran parte delle mie attività culturali e relazionali. Credo che la forza di Milano sia il suo territorio metropolitano, dalle città a nord, intense e molto abitate, ai territori a sud che garantiscono il mantenimento dei territori agricoli e la qualità dei paesaggi. L’area Metropolitana Milanese è oggi la forza di tutti noi: la messa in rete di servizi e delle grandi competenze rappresenta la chiave di volta per lo sviluppo futuro. La qualità del territorio e la coesione culturale sono gli elementi sui quali scommettere per creare un’economia circolare capace di affrontare le sfide del futuro.
Il Parco Nord Milano è pronto a questa sfida perché i Parchi non sono più solo “aree protette” ma dei veri luoghi di sviluppo sostenibile, hanno la capacità di far convivere qualità ambientale e sviluppo con identità locale e globalizzazione.
Quanto ha pesato e pesa il suo background operativo internazionale nel mettere in atto progetti di energia sostenibile, tutela ambientale, divulgazione scientifica?
Devo ringraziare la mia esperienza di cooperazione internazionale così come la mia partecipazione all’ambientalismo nell’affrontare la sfida attuale dello sviluppo umano. Ho ancora legami molto forti con la cooperazione grazie al rapporto con l’associazione COSPE di Firenze.
Ho realizzato l’esperienza internazionale attraverso azioni di sviluppo comunitario in Africa e America Latina. Ho appreso un metodo di lavoro oggi per me determinante per sviluppare i progetti di carattere ambientale. L’approccio internazionale mi ha dato la consapevolezza che
le competenze devono essere messe in relazione con il territorio, con le relazioni sociali e culturali di una popolazione. Le soluzioni non vanno bene per tutti i luoghi e per tutte le persone. La traduzione culturale è indispensabile per far sì che i processi di miglioramento umano siano poi acquisiti e governati dalle persone e dalle diverse culture. La cooperazione allo sviluppo, deve seguire un approccio basato sui diritti, nella consapevolezza che qualsiasi iniziativa, non solo deve essere sostenibile e portare benefici nella qualità di vita delle persone ma deve, per produrre un cambiamento duraturo, contribuire a garantire il pieno godimento dei diritti fondamentali riconosciuti. Quindi per progettare, prima di ogni cosa,
bisogna ascoltare, raccogliere i bisogni e proporre le soluzioni che possano essere durature e solide nel tempo.
Ogni luogo ha una sua soluzione e bisogna essere attenti ai linguaggi e alle modalità di relazione con tutte le diversità. Insomma i progetti non si possono fare da soli e la ricerca degli attori e dei partner che possono partecipare è determinante quanto l’azione che si propone. In questa direzione la multidisciplinarietà è una condizione non solo opportuna per il buon esito dei progetti ma per individuare azioni che fungano da catalizzatori capaci di generare nuove opportunità.
Consiglio a tutti i giovani di fare una esperienza internazionale, di conoscere, di essere curiosi, di condividere, di mettere in rete, di cercare la relazione con la diversità, di scoprire mettendosi in gioco apertamente. Le diverse culture sono ricche di conoscenze e competenze che se messe in rete possono davvero sorprendere per la loro forza sociale. Non smettete mai di cercare e soprattutto non interpretate la realtà prima di conoscerla e di entrare in relazione con essa.
Come possiamo avvicinare i giovani a prendersi cura del territorio che abitano e vivono?
Credo che prima di tutto si debba
partire dai giovani, dai loro bisogni e desideri creando una modalità adeguata affinché possano mettere in gioco la loro libertà, solo in questo modo è poi possibile agire per stimolare la cura e la presa di responsabilità. Troppo spesso noi adulti cerchiamo di interpretare cosa è giusto per loro senza lasciare che facciano esperienza e possano in questo modo mettersi in discussione, conoscersi e cercare la propria strada. I luoghi dove viviamo possono offrire degli spunti significativi affinché ogni giovane possa prendersene cura, gli ambienti nei quali viene praticato lo sport all’aperto, i luoghi di incontro e socializzazione.
Per i giovani è importante mettere in comune e sperimentare la propria curiosità. La questione ambientale è certamente una loro preoccupazione, basti pensare al movimento di consapevolezza e sensibilizzazione messo in campo dall’emergenza climatica e dall’azione di molti giovani in Europa e nel mondo. Io credo che la cura possa essere una reale opportunità per creare partecipazione e impegno, per stimolare i giovani a incuriosirsi del mondo, a
trovare una relazione con gli altri attraverso azioni di generosità.
Che ruolo ha e ha avuto il volontariato nella sua crescita personale e professionale?
Direi molto. È stata un’azione costante nella mia esperienza di vita. Cercare di
partecipare con azioni di volontariato alla cura delle persone e dell’ambiente mi ha permesso poi di vivere anche il lavoro con una maggiore libertà, mettendo in relazione lavoro e tempo libero in modo più libero e creativo. Mi piace quello che faccio e il volontariato mi ha abituato a vedere prima la soddisfazione dei propri desideri. In definitiva
il volontariato abitua alla felicità, rende più felici e aiuta alla scoperta dei propri talenti. Il volontariato distoglie dalla remunerazione economica delle azioni e mette al centro la persona, diventa una grande opportunità di conoscenza e formazione. Ho iniziato come volontario alla ricostruzione del post terremoto in Friuli e poi in Irpinia, poi nei piccoli boschi del mio paese sino alla cura delle persone disabili. Il volontariato è un atto di generosità ma anche una risposta alla propria formazione personale, si rivolge agli altri e alle altre ma prima di tutto risponde a sé stessi, è questa la sua forza e anche la sua riconoscibilità.
Se si cresce con il volontariato si è disponibili nel lavoro a dare di più, a fare un salto di qualità che apre le porte della professione, qualsiasi lavoro poi si faccia nella vita. Dobbiamo considerare inoltre che il volontariato crea una predisposizione più completa al lavoro e sviluppa una maggiore capacità di autogestione, si è più capaci di governare la propria formazione professionale. Potremmo dire che l’obbligo del volontariato crea la libertà e creatività del lavoro. Nella mia esperienza è stato così, il volontariato è stato un tesoro di relazioni e generosità. Lo è ancora attraverso l’esperienza di
volontariato dell’associazione Legambiente che mi ha abituato alla responsabilità partendo da sé e condividendo questa esperienza con gli altri.